Grazie e arrivederci

Varese, Italia

Ormai è una settimana che si è concluso il mio viaggio, e posso definitivamente dire di essere tornato alla normalità. Dopo tre mesi quando ritrovi il tuo letto, la tua famiglia, i tuoi amici e tutte quelle comodità che avevi quasi dimenticato provi sensazioni strane, quasi nuove.

“Ma tu sei pazzo” è senza dubbio la frase che mi sono sentito dire più volte negli ultimi mesi. Prima che partissi, appena iniziato il viaggio quando, ancora a Lubiana, raccontavo che sarei arrivato a Istanbul. Nel mezzo della Turchia quando invece parlavo degli oltre 5 mila chilometri che avevo già percorso e infine adesso che la mia avventura si è conclusa. Forse è vero, è una cosa da pazzi, o forse no è molto piu normale di quanto si possa credere, poco importa, la soddisfazione di aver portato a termine un’impresa del genere è la vera cosa importante.

Di certo non posso dire che sia stata una passeggiata, ma non ho mai avuto dubbi o momenti di scoramento. Non ho mai rinnegato la mia scelta iniziale, e penso che questo rientri nelle più belle soddisfazioni del viaggio. Torno a casa carico di emozioni ed esperienze uniche, che solo viaggiando con una Vespa avrei mai potuto provare. Conserverò il ricordo di terre bellissime, che mi hanno sorpreso in mille modi. Ho viaggiato attraverso sette nazioni, parlato lingue diverse a me sconosciute, letto in tre diversi alfabeti, rispettato e apprezzato culture distanti da noi trovandole affascinanti, quasi mistiche a tratti. Ho conosciuto persone da tutto il mondo e con ognuno ho condiviso una parte diversa del viaggio.

Viaggiare è sicuramente una delle condizioni più belle che la vita ti possa offrire, ma ha un terribile difetto: crea dipendenza. A ogni chilometro percorso, dopo ogni tramonto su una città diversa, la mente corre verso la prossima meta, il prossimo obiettivo. Ma ora devo tornare alla realtà, quella di tutti i giorni, in attesa di una nuova meta.

Come tutte le grandi avventure, questo viaggio, deve molto a tante persone. I miei genitori e la mia famiglia che hanno sempre saputo sostenermi, anche economicamente quando la situazione sembrava degenerare. La mia mamma che, nonostante abbia vissuto tre mesi in apprensione, non ha mai provato a mettersi in mezzo a quello che sapeva essere un mio sogno. Il mio amico Giacomo che ha gestito per me la parte grafica e tutti gli inconvenienti tecnici per la realizzazione di questo blog. Miki, il mio meccanico serbo, che non ha esitato ad aprirmi le porte di casa sua e a mettersi a mia completa disposizione pur di permettermi di realizzare il mio sogno (Non dimenticherò mai le sue parole “I’m crazy Lorenzo, you know? Just a crazy can do all these things for you. But I know your dream and I want to help you”).

Alexa che è apparsa all’improvviso in quella sala comune di un ostello a Istanbul e poco dopo è diventata la compagna di viaggio migliore che potessi trovare. A tutte quelle persone che, anche solo per il tempo di un caffè, hanno arricchito giorno dopo giorno la mia avventura. E infine a tutti voi che avete seguito la mia storia, che mi avete letto, sempre e comunque, anche quando magari non sono stato all’altezza delle aspettative. Spero di essere riuscito a trasmettervi anche solo un decimo di quello che ho visto e provato, sarebbe già un successo per me.

“Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole”. 

Charles Baudelaire

Last stop: back home

Varese, Italia

Dopo 7.080 chilometri e 90 giorni, ieri, si è conclusa la mia avventura. All’arrivo la Vespa era un po’ stanca, ma muovermi per le vie della mia città ancora in pieno assetto da viaggio, con le borse turche sui fianchi e l’aspetto trasandato di uno che non vede casa da tre mesi, è stata la degna conclusione del viaggio.

Domenica mattina mi aspetta l’ultima tappa in terra straniera, da Atene a Patrasso sono 210 km con qualche incognita sulla strada per uscire dalla città. Decido di partire presto e alle 7 sono già in strada, Atene dorme e con lei il suo traffico, non trovo molte difficoltà a uscire e corro lungo la costa in direzione Patrasso. Lo stretto di Corinto e le mille piccole località marittime mi fanno compagnia per tutta la mattina e nel primo pomeriggio sono al porto di Patrasso, pronto a imbarcarmi per l’Italia. Con la partenza prevista per le 5 ho un buon margine d’anticipo che si amplia a dismisura quando scopro che la nave è in ritardo e prima delle 8 non salperà.

Ventuno ore da solo su un traghetto non sono proprio una prospettiva allettante ma per fortuna incontro subito, nel garage della nave, tre simpatici motociclisti di Rimini con i quali passo parte dell’interminabile tragitto. L’attracco è uno choc non indifferente, sono le 5 di lunedì pomeriggio e dopo tre mesi torno in Italia. Ero pronto alla fine del viaggio e conscio che prima o poi sarebbe arrivata, ma quando si materializza e concretizza di fronte a te ha tutto un altro sapore. Il ritardo accumulato dalla nave non mi permette di fare molta strada quel giorno e così dopo un centinaio di chilometri mi fermo a Riccione, dove incontro mia zia e i miei cugini che mi offrono un letto per la notte e la prima cena italiana.

Martedì si parte, in direzione della via Emilia per raggiungere Parma. Abituato alle strade deserte e tranquille degli ultimi mesi, i camion e il traffico che incontro nei mille paesini che si susseguono a ripetizione sono parecchio fastidiosi. Ma non li sento. Mentalmente ormai sono rassegnato alla conclusione del viaggio e a questo punto non mi resta che tornare a casa. Prima però una sosta a Parma per ragioni logistiche, 400 km in un giorno sono un impresa che non ho intenzione di compiere. Scopro una città molto piacevole, svuotata dall’esodo estivo, che mi offre un riparo economico per la notte. La mattina si riparte di buon ora per provare a fare contenta la mia mamma che mi vorrebbe a casa per pranzo. La strada scorre bene fino a Milano, attraverso la città senza grossi problemi ma mi perdo un paio di volte nel provare ad uscire rischiando di entrare in autostrada. Imbocco la statale del Sempione e i paesi che mi accompagnano negli ultimi chilometri hanno nomi decisamente familiari.

Dopo Gallarate scopro che il mio papà è partito con mio fratello Federico, anche loro in Vespa, in direzione opposta per venirmi incontro, ci incrociamo suonando il clacson e urlandoci qualcosa a vicenda. Per gli ultimi chilometri ho una scorta d’eccezione. Mercoledì 1 agosto si conclude il mio viaggio. Non più ostelli o panini per pranzo, ad aspettarmi il mio letto e un buon piatto di pasta preparato dalla mia mamma.

Arrivederci Turchia

Atene, Grecia

Dopo più di un mese ho lasciato la Turchia. Il bollo sul mio passaporto recita: “giris” (entrata) 21/06/2012 e “cikis” (uscita) 25/07/2012. Ho trovato un paese fantastico, che ha saputo sorprendermi in mille modi. Dopo poche ore dal mio ingresso stavo già giocando a backgammon e bevendo cay con un ragazzo che non sapeva niente di me, se non che ero uno straniero. Perché qui funziona così, prima di tutto devi sederti, accettare un tè e rilassarti, poi ti chiedono chi sei. C’è una sottile differenza che mette tuttavia in risalto l’abiasso culturale che separa i turchi dalla maggior parte degli altri popoli.

A Konya, in un piacevole pomeriggio immerso nella più forte identità culturale che abbia trovato, sedevo con Alexa in un bar a bere cay. All’improvviso una mano mi tocca la spalla, è un anziano signore con un gran sorriso e pochi denti. Ricambio il sorriso giusto un attimo prima che lui si sieda con noi, ordina senza dire niente “iki cay” (due te) per noi, lui non prende niente. Non parla inglese, solo qualche parola di tedesco che purtroppo non rientra nella nostre abilità, ma non importa. Proviamo a imbastire una conversazione con le quattro espressioni turche che conosciamo, ma dopo poco il nostro repertorio è finito. Beviamo il tè in un silenzio che non pesa e, insistendo perché prenda l’ennesima sigaretta dal suo pacchetto, ci saluta contento.

Certo, può sembrare un episodio di poco conto, ma provate a pensare in quante altre città del mondo sarebbe possibile. Konya, per dovere di cronaca, è una delle città più grandi della Turchia: vanta 1.2 milioni di abitanti. Ovviamente questo paese non è solo magia e cortesia, ho trovato delle note negative anche qui, ma solo dove il turismo ha preso il sopravvento. Quasi che per piacere, farsi bella agli occhi del mondo fosse costretta ad abbandonare la sua identità. È lo stesso concetto che non mi ha fatto apprezzare Belgrado. Bisogna lottare, tentare fino all’ultimo di affermare la propria identità e non provare a travestirsi da qualcosa che non ci appartiene, solo per rispondere a delle strane logiche.

Ho lasciato da qualche tempo la vera atmosfera del viaggio e sono stato risucchiato in quella del turismo, della vacanza. Fin quando ero in buona compagnia quasi non me ne ero accorto, vivendo anche io in vacanza. Ma ora con la fine del viaggio che non si misura più in mesi o settimane ma in giorni, pochi giorni, ho sviluppato una sorta di intolleranza verso questa esaltazione del turismo.

Kos non aiuta di certo a mitigare queste sensazioni. Non avrei mai scelto questa metà se avessi avuto altre possibilità. L’isola è lunga 40km e la parte di Kos città pullula di ragazzi, molto dei quali italiani, che mostrano senza ritegno il loro lato peggiore. Ogni angolo è devoto al consumo, i prezzi sono drasticamente lievitati e contrastano con le mie finanze ormai agli sgoccioli. Anche le taverne tradizionali, per tornare al discorso di prima, hanno ceduto alle logiche del turismo. Fuori da “El Greco. Traditional greec cousin” il menù recita: “traditional greec food: pasta, spaghetti bolognesi, spaghetti frutti di mare, lasagni (con la i!), pizza”. Beh ragazzi miei, qui c’è qualcosa di sbagliato.

Per il resto l’isola è carina, nella sua vastità offre anche degli angoli pacifici e quasi incontaminati. L’hotel Ellas che mi ospita per due notti è gestito da un piccolo signore con i baffi folti che parla un italiano incerto, fatto di verbi all’infinito e seconda persona plurale. La terza notte la passo, mentre scrivo, su un traghetto per Atene, dove farò scalo per una notte, giusto il tempo di rivedere l’acropoli in tutti il suo splendore e mettermi in strada per Patrasso, ultima tappa in terra straniera.

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A un passo dalla Grecia

Bodrum, Turchia

Lasciata Fethiye mi dirigo a nord per qualche chilometro, verso la penisola di Datca. Questa incantevole striscia di terra si protrae nel mare per quasi 100km, nei punti più stretto si può vedere il mare su entrambi i lati. Una passerella tra le montagne che domina la baia. La cittadina di Datca è viva e animata dal turismo turco che le conferisce un certo fascino. L’unico problema è che non ci sono traghetti per la Grecia fino a venerdì, così questa mattina sono partito via mare per Bodrum da cui domani ripartirò alla volta di Kos.

La città è un carnaio di turisti che si accalcano nelle strette viette, il caldo è quasi soffocante e la lingua ufficiale sembra essere diventata l’italiano. La musica ad alto volume fa da colonna sonora alla passeggiata nel bazar meno turco che abbia mai visitato, sembra piuttosto di essere in un grande centro commerciale all’aperto. E allora, deluso da tutto questo, mi ritrovo a pensare alle belle esperienze vissute negli ultimi tre mesi.

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Ero al confine tra Serbia e Bulgaria. Un posto di frontiera dalle dimensioni decisamente sproporzionate rispetto al traffico di quel giorno. Una quindicina di guardiole, delle quali solo tre aperte. Mi metto diligentemente in coda e dopo qualche minuto arriva una poliziotta a controllarmi il passaporto, mi domanda con aria seria se abbia armi, droga o contanti per più di 10 mila euro. Provo a stemperare la tensione con una battuta, facendo capire che di armi e droga non ne ho ma mi piacerebbe avere 10 mila euro. Mi fulmina con gli occhi, sembra non aver apprezzato. Ritratto subito e torno umilmente al mio posto. Mi lascia passare, ma di certo non diventeremo amici.

Nella parte bulgara la coda è più lunga, burocrazia penso. Spengo il motore e aspetto pazientemente il mio turno. Dopo qualche minuto però un poliziotto esce dalla guardiola e inizia a guardare me e la Vespa. Mi fa segno di raggiungerlo alla sbarra, metto in moto e, con il passaporto e i documenti della Vespa tra i denti, lo raggiungo. “It is a Vespa?” mi chiede in un inglese incerto. “Yes, I’m from Italy” rispondo. Il suo volto si riempie subito di un’espressione sgomenta e chiama a rapporto tutti i colleghi. Accorrono una mezza dozzina di poliziotti che iniziano a farmi domande e a squadrare la Vespa. Dopo dieci minuti abbondanti, con la coda completamente bloccata mi fanno passare. Timidamente provo a chiedere se debbano controllare il passaporto, mi fanno cenno che non c’è bisogno e mi salutano calorosamente augurandomi buon viaggio.

Tra Riccione e Petra

Fethiye, Turchia

I giorni corrono, la fine del viaggio è sempre più vicina. A ricordarmi che piano piano mi sto avvicinando alla calca estiva questa volta ci ha pensato Fethiye. Questa grande città turistica ha tutte le peggiori caratteristiche di una Rimini o Riccione qualunque. Piena di turisti provenienti da tutto il mondo, è costellata di locali in un’atmosfera che non ha niente di turco. La spiaggia cittadina pullula di ombrelloni e sul lungomare la musica ad alto volume la fa da padrone.

Lontani dalla pace e dalle bellezze di Patara, cerchiamo rifugio nell’unico valido motivo per visitare la città: le splendide tombe lice che costellano la collina antistante i cui resti sono stati spesso inglobati dalle case. Passeggiando con aria smarrita veniamo subito avvicinati da un signore di mezza età che sfoggia una enorme pancia e inizia a raccontarci la storia del posto. Ci porta nei piccoli vicoli in salita del quartiere e tra una casa e un’altra scopriamo moltissime tombe e resti. Una gita piacevole che si conclude, per la prima volta, con una discreta richiesta di una mancia.

Ma la vera grande attrazione è la tomba di Amyntos. Il grande re che ha fatto costruire l’antica città di Telmessos, ha scelto un imponente muro di roccia che domina tutta la baia per riposare. La facciata della camera mortuaria, scavata interamente nella roccia, è uno spettacolo affascinante e le è valso l’appellativo di “piccola Petra”. Tutto ciò restituisce un po’ di magia a questo luogo dominato dal turismo e dai suoi eccessi.

Domani la mia vacanza finisce e riprende il viaggio vero e proprio. Alexa, dopo più di due settimane, partirà per tornare a Istanbul e riprendere a lavorare, io mi dirigerò verso Datca, una stretta penisola che si protrae nell’Egeo, dalla quale prenderò un traghetto per la Grecia. La voglia di continuare non manca ma le finanze iniziano a scarseggiare e la Vespa, onestamente, accusa i quasi 6 mila chilometri. Ancora qualche giorno di mare, una visita al Partenone ad Atene e sarò pronto a rimettere le ruote sul suolo italiano con molta nostalgia per questi luoghi, queste persone e queste emozioni.

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Una lenta risalita tra mare e rovine

Patara, Turchia

Il mediterraneo ha lo stesso profumo ovunque. Sale, ulivi e campagna. Risalendo lentamente la costa, questa strada si è rivelata in tutte le sue molteplici facce. Dalle zone quasi montane a splendidi tratti che corrono a ridosso della scogliera su uno specchio d’acqua trasparente. Decidiamo di evitare i centri turistici e dopo Olympos passiamo una notte a Finikle, una cittadina che vive di poco turismo, quasi interamente turco e conserva ancora un’anima intonsa. Dalla terrazza sul tetto della pensione, il mare ci fa compagnia per colazione.

Domenica si riparte per Demre. Lungo la strada, con Alexa che mi aspetta alla stazione dei pullman, vengo accostato da Mirko, uno skipper italiano che è fermo con la barca a Kas, pochi chilometri più avanti. Ci intratteniamo per qualche minuto e mi racconta nel suo accento toscano la sua storia e gli ultimi mesi che ha trascorso in Turchia. Sfortunatamente partirà il giorno successivo e non facciamo in tempo ad accettare il suo invito in barca.

Una delle espressioni più forti della cultura musulmana sono le donne in spiaggia. In questa parte della Turchia non indossano veli per coprire il volto ma semplici foulard in testa e non lasciano scoperta alcuna parte del corpo ad eccezione delle mani. Completamente vestite, fanno il bagno e nuotano come se niente fosse e, anche se ho grande rispetto per questa cultura, ai miei occhi occidentali sembra più una tortura sotto i 40 gradi che battono sulla spiaggia.

A Demre lo splendido sito archeologico di Myra racchiude un teatro ben conservato e un impressionante palazzo interamente scavato nella roccia che purtroppo però non si può visitare. Abbiamo dormito in una pensione a conduzione familiare dove ognuno ha il suo ruolo. La mamma prepara ottime cene e tiene in ordine la casa, il papà intrattiene gli ospiti e il figlio maggiore ci accompagna in una splendida spiaggia quasi deserta, nonostante fosse domenica, dove poter godere a pieno del mare. L’unica che non ha ancora un compito è la piccola di casa che si gode i suoi 7 anni scorrazzando per il giardino e giocando con gli ospiti.

Oggi siamo arrivati a Patara per ammirare i 13 km di spiaggia di sabbia che corrono lungo la costa. La strada d’accesso, in pavé ben conservato, è circondata dai resti e dalle rovine dell’antica presenza licia nella zona. Sul lungomare siede un’anziana signora, indossa i tradizionali pantaloni di tela larghi, un velo a coprire i capelli e sul volto un gran sorriso che esplode ogni volta che un’onda si infrange sulla costa

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Sulle tracce dei re

Olympos, Turchia

Scappare dal turismo di massa, in questa parte della Turchia, a metà luglio è decisamente impossibile. Allora non resta che provare ad alleviarlo con la bellezza del posto. Quella che viene definita la strada dei re, corre da Antalya a Fethye arroccata sulle montagne che delimitano la costa. Tra boschi e paesaggi tutt’altro che marittimi percorro ancora 120 km prima di arrivare a Olympos. Nascosta tra i boschi questa bellissima località sembra uscita da un depliant di vacanze, ma a differenza di Side il turismo è perfettamente integrato con la natura. Passo tre notti in una casetta sull’albero, completamente immersa nel verde. L’unica spiaggia della zona è abbastanza grande da accogliere i tanti turisti, molti dei quali turchi, segnale che mi conferma la validità della mia scelta.

Tutt’intorno un vasto sito archeologico che conserva i resti dell’antica presenza licia nella zona. Il mare è di nuovo il mediterraneo, caldo e limpido ma la temperatura, di giorno costantemente intorno ai 40 gradi, rende tutto questa meraviglia un po’ soffocante. Camminando nel bosco che delimita la spiaggia ci si imbatte in alcune tombe lice e nei pochi resti di una imponente fortezza che serviva a vigilare sul mare, il tutto in uno scenario che ricorda più la giungla che la Turchia mediterranea.

Sulla strada per raggiungere Olympos, mi sono imbattuto in due motociclisti che, con le loro grosse Harley Davidson, rendono il mio viaggio con una piccola Vespa ancora più eccezionale. Parliamo per qualche minuto, racconto loro la mia strada e osservo le loro espressioni sgomente con un pizzico di orgoglio. Mi dicono che anche loro sono a Olympos per un raduno con il loro club e quando ci salutiamo mi invitano per i giorni successivi. Tutto pensavo, ma non di essere elevato al rango di motociclista.

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Oggi continuerò la mia lenta risalita lungo la costa con la bella compagnia di Alexa, una ragazza americana che ho conosciuto a Istanbul. L’ultima sera, prima che lasciassi la città, qualche birra e della buona musica reggae ci hanno convinto a continuare i nostri viaggi insieme. Lei lavora all’ostello ma per una decina di giorni girerà la Turchia. Ci ritroviamo in Cappadocia, scopriamo insieme le bellezze della zona e continuiamo i nostri viaggi che nel frattempo è diventato uno solo. L’unico rammarico è che la mia Vespa è decisamente troppo carica e stanca per permetterci di muoverci insieme su lunghe distanze.

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Cicim heybe, viaggiare alla turca

Side, Turchia

Ieri mattina dopo una buona colazione in albergo ad Aksaray, sono pronto per partire alla volta di Konya. Il ragazzo delle reception mi aveva fatto parcheggiare la Vespa nell’ingresso, e quando vado per tirarla fuori scopro che la ruota davanti è completamente a terra. Una buona mezz’ora a lottare con i dadi arrugginiti e parto sotto un cielo molto minaccioso. Per fortuna la pioggia non mi prende e riesco a uscire dalle nuvole asciutto. Ma per ogni buona notizia ho imparato che me ne aspetta spesso una cattiva.

Alla prima sosta noto che la saldatura sul portapacchi del mio amico Alì sta cedendo e anche la parte destra, che era stata solo rinforzata, non può sopportare altri chilometri. Metto nuovamente il bagaglio sulla pedana e raggiungo Konya. Rimango piacevolmente colpito da questa città che da molti era stata indicata come la più conservativa della Turchia. Esteticamente bruttina ma con un’atmosfera fantastica, racchiude nelle vie del grande bazar un fortissimo senso della tradizione. Il profumo del caffè si mischia a quello di cay e tutt’intorno a me nessun turista. Il primo obiettivo del giorno è quello di trovare un gommista che mi cambi la camera d’aria e magari sistemi il portapacchi. Cammino con i pezzi della Vespa in mano nel bazar e vengo mandato da un negozio all’altro fino a quando non trovo chi mi può aiutare.

La ruota non è un problema, ma per il portapacchi c’è bisogno di una riunione di gruppo con alcuni negozianti della zona. Dopo un consulto vengo rimandato alla mattina seguente quando, con un po’ di inventiva turca, forse si potrà fare qualcosa. Durante il mio vagare finisco in un negozietto di tappeti dove rimango subito colpito da due splendide borse realizzate a mano in un villaggio della zona. È lì che inizia a balenarmi in testa una strana idea. Perché continuare a mettere delle toppe al portapacchi con nessuna garanzia di tenuta e magari avere lo stesso problema che si ripresenta ogni due giorni, quando posso avere questa soluzione turca? Mi concedo una notte per pensarci, ma la risposta, in realtà, la conosco già. Questa mattina, dopo essere andato a recuperare il portapacchi, mi presento da Yukse, il mio venditore di tappeti, pronto per la trattativa.

Scopro che in realtà lui vive nel suo minuscolo negozio e quando arrivo alle 9 lo sveglio. “No problem my friend” dice sbadigliando e ordinando due cay al bar vicino. Dopo quasi un’ora e due bicchieri di tè offerti da lui, esco con le mie cicim heybe. Torno in albergo, alleggerisco la valigia mettendo tutte le cose pesanti nelle borse e la metto sul portapacchi anteriore. Lo scheletro di quello posteriore serve per reggere la tanica con il mio bagaglio turco che poggia alla perfezione sulla sella. Riparto, un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, con il mio nuovo look, pronto a dirigermi verso la costa del mediterraneo.

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La strada è molta, ma lo spettacolo che offre è meraviglioso. Sono oltre 200 km di montagna, durante i quali affronto un passo a 1824 metri, lo scenario è brullo ma abbellito da un infinita di vallate che si incrociano contribuendo a formare scorci bellissimi. A pomeriggio inoltrato, raggiunta la cima dell’ennesima salita, l’orizzonte si tinge di blu. È il mediterraneo. Mare e cielo si uniscono nella foschia dell’orizzonte, è impossibile distinguerli. La temperatura dopo il drastico calo del passo si fa torrida e vengo gettato sulla trafficata statale 400, la costiera. Side, la mia meta, dista ancora pochi chilometri. Trovo la ressa estiva che mi aspettavo, così domani ripartirò per Olympos che dovrebbe essere un’oasi di pace in questa confusione.

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Fuori dal mondo nel mezzo della Turchia

Aksaray, Turchia

Alì è un giovane meccanico che quando arrivo venerdì pomeriggio non ha molto lavoro da fare. Seduto in una stanzetta dietro la sua officina, beve cay e impiega qualche secondo ad accorgersi di me, distoglie lo sguardo dal computer e mi viene incontro. Non parla inglese, ma quello di cui ho bisogno è più che evidente. Prende le due parti del portapacchi, le studia e, senza dire una parola, si dirige verso il fondo del garage. Accende la saldatrice e inizia a lavorare sulle parti rotte, non indossa alcun tipo di protezione se non dei guanti e il bagliore e le scintille mi costringono a fare qualche passo indietro. Dopo pochi minuti, durante i quali ho seriamente temuto per la sua vista e per tutto quello che c’era intorno a lui, il portapacchi torna ad avere le sembianze originali. Una soluzione di fortuna che per ora sembra funzionare.

Le strade della Capadocia sono perfette da girare in Vespa: poco traffico, scenari surreali e molti posti non distanti tra loro. L’incredibile ricchezza di questi luoghi varia tra le meraviglie naturali e impressionanti opere umane che portano oltre dieci secoli sulle spalle. Ogni valle offre scorci mozzafiato e si passa da un panorama arido e brullo alla rigogliosa e verde vegetazione che cresce intorno al fiume che attraversa Avanos. Pochi chilometri separano la città sotterranea da Kaimakli, che si sviluppa su ben 14 livelli e ha tutte le caratteristiche di una città normale, dalle scuole alle chiese, passando per le stalle e le abitazioni. La zona circostante è ricca di antiche chiese rupestri, queste splendide opere umane sono state scavate interamente nella roccia e al loro interno conservano magnifici affreschi.

Giusto ieri però, mentre guidavo nella luce del tramonto per tornare in ostello, si è presentato l’ennesimo intoppo. Il filo della frizione si è rotto. Con il contachilometri che si appresta a segnare 4500, lo avevo messo in preventivo. La fortuna questa volta ha voluto che, nonostante mi trovassi a 12 chilometri dall’ostello, la strada fosse sgombra e senza stop, il che mi ha permesso di arrivare, con qualche sobbalzo finale, fino al giardino dove mi sono messo subito al lavoro. Ma il sole ormai sta sparendo dietro le montagne, così decido di rimandare le operazioni a questa mattina. Impiego più di un’ora ma verso le 10 la Vespa è di nuovo operativa, rimonto anche il portapacchi ed esco per un’ultima visita alle bellezze della zona.

Nonostante si tratti dei paesaggi più suggestivi che abbia mai attraversato, nel primo pomeriggio lascio Goreme alla volta si Aksaray. Inizia la discesa verso la costa del mediterraneo e da lì la lenta risalita. Ormai sono sulla via del ritorno ma sarà una via ancora lunga e piena di luoghi da scoprire.

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Sulla luna alla ricerca di un fabbro

Goreme, Turchia

Quando chiedo informazioni al proprietario dell’ostello di Sanfranbolu sulla strada per la Cappadocia mi consiglia subito l’autostrada. Dice che sono 525 km e che lui ci mette in media quattro ore. Provo invano a spiegargli che non ho nessuna intenzione di fare l’autostrada e che io, invece, ci metterò un paio di giorni. Ride e mi propone addirittura di caricare la Vespa sul suo furgone, mi ci porta lui a Goreme. Declino gentilmente l’offerta e martedì mattina parto deciso a seguire la strada che avevo in mente.

Prima sosta Ilgaz, una piacevole cittadina ai piedi dei monti che in inverno, a quanto ho capito, diventa il polo sciistico principale della zona. Trovo da dormire in un albergo economico e che gode di una splendida vista sulla vallata ed esco per una passeggiata nel piccolo centro. La vita scorre intorno al parco, minuscolo e affollato da anziani signori intenti a conversare animatamente. Bevo un paio di cay, li osservo e in breve tempo vengo avvicinato da alcuni ragazzi che provano invano a imbastire una conversazione con me. Non si sforzano di farsi capire e i tentativi risultano nulli.

Mercoledì mattina riparto sotto un cielo nerissimo, il padrone dell’albergo mi dice nel suo francese stentato che pioverà. Io non gli credo, o non voglio farlo e mi metto in strada pronto ad affrontare la cima più alta del mio viaggio. Scollino a 1420 metri e il tempo inizia a migliorare. La strada si butta in discesa in uno dei paesaggi più belli che abbia mai visto. Pianure sconfinate si estendono a destra e sinistra, solo ogni tanto, in lontananza si increspano dolcemente, ma il tutto è in completa armonia. Dopo ogni leggera salita questo spettacolo si ripete e si spalanca di fronte a me, ha tutte le sfumature del marrone. Dal color oro dei campi di grano al marrone intenso di quelli ancora in attesa delle prime fioriture.

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Dopo 100 km questa magia però svanisce e vengo riproiettato su una strada trafficata e piena di camion che mi farà compagnia per parecchio tempo. Mi ero dato come obbiettivo Keskin, a metà strada tra Ilgaz e Goreme ma ci arrivo prima del previsto e decido di continuare ancora qualche chilometro verso una cittadina segnata sulla cartina. Giunto li scopro però che è molto più piccola del di quanto pensassi, tanto che non c’è neanche un albergo. Riparto sconsolato e percorro altri 80 km prima di raggiungere un centro abitato, Nevsehir, dove questa volta trovo da dormire. Questi piccoli inconveniente hanno però il pregio di avermi portato a soli 100 km dalla meta.

Oggi, galvanizzato dal traguardo così vicino mi metto in marcia presto. Ingenuamente avevo pensato che i problemi fossero finiti, ma ecco che puntualmente si ripresentano. Già da qualche giorno il portapacchi posteriore mi preoccupava ma pensavo a una leggere flessione che si sarebbe assestata sotto il peso della valigia. Ma quando mi fermo per controllore, la situazione è degenerata a tal punto che tolgo il bagaglio e lo metto tra le gambe. Precauzione del tutto inutile, infatti cederà definitivamente da lì a poco sotto i sobbalzi di una strada completamente sterrata della Capadocia. Viaggiare con la valigia sulla pedana non è un grosso problema, ma è decisamente scomodo. Mi toccherà testare l’inventiva dei fabbri turchi in un disperato tentativo di recupero.

Per fortuna a risollevarmi il morale c’è la magia e la bellezza di questi luoghi. Se dovessi immaginare un paesaggio lunare non sarebbe poi così distante da questo. Le splendide forme che il tufo ha preso con il tempo e sotto la costante erosione di vento e acqua, sono bellissime. Salendo sulla cima di una collinetta si domina tutto il paesaggio circostante e si ha quasi l’impressione di trovarsi su un altro pianeta. Tutto questo dopo solo mezza giornata. Mi fermerò qui per qualche giorno per godere a pieno di questi luoghi, ma anche per necessità. Se riuscissi a sistemare il portapacchi sarebbe una gran cosa.

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